Mi hanno spezzato la schiena. È come se mi avessero fratturato la spina dorsale in due, dandomi un colpo così forte e così maledettamente preciso nel punto più debole e crack, la mia schiena si è spezzata in due lasciandomi senza fiato, lasciandomi per terra, inerme, incapace di reagire.
La schiena non mi è stata spezzata letteralmente, ma è così che mi sento. E dopo 15 giorni passati nel buio più totale, quello della mia camera da letto e quello così tetro che soltanto l’animo umano conosce, ho deciso che scrivere qui, nel luogo dove mi sono rialzata in un altro momento orribile della mia vita, quando è morta mia nonna, poteva essere un modo per rimettere insieme i pezzi e, forse, essere di aiuto a qualcuno.
In fondo, ho sempre condiviso con chi mi legge tutto il mio percorso di malattia tra alti e bassi, ma non ho mai parlato in modo approfondito di cosa mi è successo nella vita privata negli ultimi due anni.
Di per sé, è una storia come quelle che si sentono tutti i giorni.
Una storia come tante, di amori decennali che naufragano perché quando si è al timone della relazione per diversi motivi non si riesce più a mantenere la rotta verso cui si era deciso di andare, insieme.
Ma ogni storia è la propria storia, non è mai uguale a quella di un’altra persona per quanto il racconto di base possa assomigliarsi molto. Tutte le storie sono fatte di progetti, aspettative e sogni. E in tutte le storie possono essere infranti.
Nella mia storia di sogni ne ho sacrificati due, quelli che reputavo (e il passato è voluto) i più importanti, quelli che ogni giorno mi davano la spinta, insieme a un amore veramente immenso, per dare il meglio di me e contribuire ogni giorno ad aggiungere un pezzo del puzzle del progetto di vita più importante che avevo.
In dieci anni ho commesso anche degli errori, ma chi non ne fa. Le mie fragilità, le mie questioni irrisolte, quelle che ti porti dietro dall’infanzia, dalle storie precedenti in cui sei stata tradita, in cui ti hanno mentito e tu non te ne sei accorta fino a quando non era troppo tardi, mi hanno resa insicura e poi sono diventata instabile perché rincorrevo i miei sogni e non riuscivo mai a raggiungerli, finché piano piano li ho letteralmente accantonati. E questo è stato un grande errore, forse il peggiore.
Uno di questi era essere madre. Ma madre non in generale, madre in quella relazione, al punto che avevo scelto persino il suo nome, di una bimba perché ero convinta che sarebbe stata femmina e il suo nome aveva a che fare con il mio colore preferito. E questo è il vuoto più grande che mi è rimasto e per sempre mi rimarrà. Un vuoto che senti nella pancia, proprio lì e non è un caso.
Insieme al vuoto lasciato dall’amore di dieci anni che si trasforma in odio, rabbia, rancore, bugie, ripicche, urla, cattiverie, accuse, lacrime, solitudine, assenza, lontananza, indifferenza. Fino a quando si rompono tutte le promesse reciproche fatte anche al di là dell’amore che se n’è andato e il rumore di quelle promesse che si rompono è così assordante che ti spezza la schiena in due perché tu, soltanto tu, ci credevi. Sbam, in un colpo solo. Netto che non lascia scampo.
E il cuore si ferma. Per 15 giorni. Eterni, scanditi solo dalla luce fuori dalla camera da letto che cambia in base all’orario della giornata. In cui tutto ciò che vivi è un pianto inarrestabile, non respiri. E se respiri, senti l’aria che brucia quando passa dal naso ai polmoni. Piangi ed è tutto ciò che riesci a fare, perché non trovi risposte, non trovi una ragione per cui le cose siano andate in quel modo, perché il buio ti avvolge e ti ingoia, letteralmente.
La tua identità si è spezzata, insieme alla tua schiena, e il cuore ad un certo punto si pietrifica, letteralmente. Dalla disperazione totale, ad un certo punto passi all’assenza totale di emozioni e intorno a te costruisci un muro. E da quel muro non entra più nessuno. Perché questa sofferenza mi ha reso un pezzo di granito contro cui ora è assolutamente spiacevole scontrarsi.
Nel buio pensi che la persona che ti tirava su dal pavimento quando avevi gli attacchi di panico per l’emicrania oggi è diventato all’improvviso un ricordo sbiadito, un volto annebbiato. E la delusione è un sentimento terribile, più della rabbia, più dell’odio.
Il mio respiro si è fermato più volte in questo ultimo anno e mezzo. Ma gli ultimi 15 giorni sono stati l’inferno, il mio inferno personale, il più brutto mai vissuto fino ad ora. Sono sgretolata, completamente. Sono polvere che non riesce a stare insieme nemmeno sotto forma di un mucchietto, basta un alito di vento e il mucchietto si sparge qua e là. Pouff…
Fino ad oggi, fino al momento in cui non ho deciso di scrivere questo post per il blog, mi sono profondamente vergognata del dolore che sto provando. Una vergogna tremenda, di quelle che ti fanno chiudere in casa e ti fanno nascondere come se avessi rubato qualcosa al mondo là fuori. Perché «Ci sono cose peggiori nella vita», certo, per carità, nessuno lo nega. Ho vissuto due lutti così devastanti negli ultimi anni che conosco bene il peggio che la vita può offrire.
Ma la morte è un lutto diverso da elaborare. L’essere umano, invece, è l’unico essere vivente a questo mondo che ferisce in modo senziente, spesso per egoismo, spesso schiacciato da paure ataviche che non si sono mai risolte e mai si risolveranno. L’ho fatto io, l’hanno fatto a me. Ciascuno di noi almeno una volta nella vita ha ferito e fatto del male a qualcuno.
Poi ho deciso che vergognarmi di un dolore che mi si vede scritto in faccia ogni giorno non aveva molto senso. Parlo ogni giorno di combattere lo stigma e poi? Cosa faccio? Mi nascondo io per prima? Perché la sofferenza psicologica è una vergogna? No, non lo è.
E ne parlo anche perché, per quanto io sia una paziente consapevole, quello stigma è ancora lì, insidioso, appiccicato addosso.
E perché mentre io ero nel buio più profondo intorno a me si sono mossi all’unisono i medici meravigliosi con cui ho l’onore di collaborare ogni giorno per l’emicrania, i miei vicini di casa, i miei amici, tutte le persone che mi vogliono bene e la mia famiglia e mi hanno presa per mano per aiutarmi almeno a capire che il mucchietto di polvere che sono diventata forse può, almeno per il momento, provare a rimanere aggregato senza che il vento lo disperda continuamente.
E ne parlo perché al pronto soccorso, dove sono stata portata perché l’attacco di panico che avevo in corso non mi permetteva di calmarmi in nessun modo e non respiravo più, ho trovato uno psichiatra che si è posto in ascolto senza giudicare. Mentre nei giorni successivi, altrove (e non dirò dove solo per rispetto della privacy) ho trovato chi di empatia ne ha avuta zero e mi ha liquidata come un caso secondario, roba da poco, insomma.
Sì, succede ancora questo.
Sì, esistono dolori di serie A e di serie B.
Che siano quelli del corpo o quelli dell’animo.
Che sia perché il SSN ha delle difficoltà nell’organizzare personale e risorse nei centri di salute mentale, che sia perché se non hai i soldi per andare in terapia privatamente ci sono liste di attesa eterne, che sia perché l’empatia purtroppo non te la possono insegnare, né se fai il medico, né se fai l’operaio o l’avvocato.
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Ti capisco benissimo Alessandra
Ti sono vicina da lontano
Anche se non ci conosciamo 🫂🫶🏻💗
Cosa dire…capisco la sensazione, ho i brividi.
Ti sono vicina con il cuore.
Un abbraccio.
Forza ♥️💪
Ti sono vicina💜 e ti ringrazio come per ogni tuo articolo, per le TUE (che leggo tanto di mio e mi danno sempre una grande forza) parole dell’emicrania e/o salute mentale o in questo caso del buio… ti auguro di cuore che la LUCE torna presto a trovarti 🙏🏻